CONTROVERSIA – Insufficienza Cardiaca Acuta: c‘è ancora spazio per il contropulsatore aortico?

Danilo Puccio
Alla luce delle più recenti evidenze, due autorevoli pareri a confronto sulle attuali indicazioni alla contropulsazione aortica

In presenza di insufficienza cardiaca acuta, non sempre il supporto farmacologico risulta sufficiente, pertanto bisogna poter ricorrere a sistemi di assistenza meccanica. Da decenni il contropulsatore aortico (IABP) è, tra i sistemi di supporto meccanico, quello ancora maggiormente utilizzato specialmente nella nostra realtà italiana, tuttavia il risultato dell’IABP-SHOCK II trial ha contribuito a ridimensionare significativamente i suoi campi di utilizzo e a far peggiorare la sua classe di raccomandazione che è passata nelle linee guida europee dello scompenso cardiaco dalla IC nel 2008 alla IIIB nel 2016.

Il dibattito rimane tuttavia ancora aperto, pertanto si è rivelata molto interessante la controversia sull’argomento, moderata dal Dott. F. Oliva, che ha visto schierarsi in favore del “pro” la Dott.ssa R. Rossini e dalla parte opposta la Dott.ssa L. Cacciavillani.

Sono stati dapprima presentati i dati di una survey condotta in Italia a cura dell’Area Emergenza-Urgenza ANMCO che ha mostrato come, malgrado gli intensivisti e gli interventisti italiani ben conoscano i risultati dello SHOCK II trial e, in quasi la metà dei casi, gli stessi condividano la raccomandazione delle linee guida che pone in classe III l’uso routinario dell’IABP, tutto ciò non ha significativamente modificato la loro pratica clinica e il ricorso all’IABP nei casi di shock, pre-shock ed in caso di complesse procedure di PCI non ha subito un significativo decremento. Questi risultati possono essere spiegati almeno in parte dal fatto che, nella maggioranza dei centri italiani, non vi è la disponibilità di poter reperire altrettanto facilmente altri sistemi di assistenza meccanica al circolo. Un altro dato sicuramente interessante che si evince dalla survey è che, nel 62% dei casi l’IABP viene posizionato prima della procedura di PCI e che soltanto il 64% degli intensivisti ricerca i segni di bassa portata, elemento fondamentale per poter riconoscere prontamente la condizione di pre-shock, lì dove la terapia sia farmacologica che di supporto meccanico mostra i maggiori benefici, prima che poi si arrivi al quadro di shock conclamato.

Purtroppo, l’analisi della letteratura scientifica non riesce a fornirci solide evidenze, poiché i trial randomizzati sull’uso dei dispositivi di supporto meccanico percutaneo sono molto pochi e per di più con sample sizes molto piccole. Quello con la popolazione più ampia è sicuramente l’IABP-SHOCK II trial del 2012, studio prospettico, multicentrico, condotto su 600 pazienti con shock cardiogeno secondario a infarto miocardico acuto, dove, come è noto, l’utilizzo dell’IABP non si è tradotto in una riduzione significativa della mortalità a 30 giorni rispetto all’usual care. Parimenti, però, il suo utilizzo non si è neanche associato ad un aumento significativo delle complicanze (sanguinamenti, stroke, reinfarto, trombosi di stent, sepsi). Questo studio presenta una serie di limiti come l’inserimento forse troppo tardivo dell’IABP (nel 87% dei casi avvenuto dopo la PCI), la possibile presenza di shock subacuti, i pazienti del gruppo IABP morti prima dell’impianto, il significativo crossover di pazienti tra i due bracci, l’impianto di VAD in pazienti del gruppo IABP, tant’è che un’artificiosa ri-analisi eseguita successivamente nel 2014 ha mostrato che correggendo semplicemente alcuni di questi limiti, si riuscirebbe ad ottenere una riduzione dell’endpoint che lambisce la significatività statistica.

Non esistono trial randomizzati di confronto tra diversi dispositivi di supporto meccanico percutaneo, tuttavia nel 2019 Schrage B. et al. su Circulation hanno confrontato la curva di mortalità a 30 giorni dei pazienti dello SHOCK II trial con quella di pazienti, adeguatamente matchati, trattati con device Impella, non evidenziando differenze significative, a discapito tuttavia del numero di complicanze (in special modo le emorragiche) risultate più frequenti nei pazienti trattati con l’Heart Pump.

Tra i dati certi che possiamo estrapolare dall’intervento della Rossini vi sono sicuramente: la necessità di creare ed utilizzare un protocollo chiaro e condiviso sulla gestione dei pazienti con shock cardiogeno; l’esigenza di un’adeguata sensibilizzazione verso la ricerca dei segni di bassa portata, per garantire un corretto timing nel posizionamento del contropulsatore, che dovrebbe avvenire nella fase di pre-shock e non quando ormai è troppo tardi; l’importanza di posizionare l’IABP prima di procedere alla PCI; l’IABP è ancora certamente il sistema di supporto più diffuso, di facile utilizzo, economico e sicuro. Emerge infine la forte esigenza di implementare la rete di assistenza per lo scompenso cardiaco, secondo quanto apparso dalla survey dell’ANMCO, ancora non presente nel 58% dei casi, con significative differenze per macroaree regionali (Nord>Centro>Sud).

La Dott.ssa Cacciavillani nella sua relazione è partita dalle basi fisiopatologiche dell’insufficienza cardiaca acuta per sottolineare che il contropulsatore aortico con il suo meccanismo di funzionamento è in grado da una parte, di ridurre anche in modo significativo l’afterload e dall’altra di incrementare il flusso coronarico, ma questo non è detto che si traduca necessariamente in un aumento della contrattilità miocardica e quindi, in un aumento della portata cardiaca, reale finalità a cui deve sottendere un dispositivo di supporto al circolo. Tale tesi è suffragata anche da recentissime evidenze scientifiche che mostrano come l’effetto emodinamico dell’IABP sia in realtà molto modesto.

Alla luce di tali considerazioni fisiopatologiche ed emodinamiche appare corretta la marginalizzazione dell’IABP nelle attuali linee guida, limitando un suo utilizzo soltanto in casi selezionati: in presenza di complicanze meccaniche (rottura di setto, rottura di papillare ad. es.) come ponte all’intervento chirurgico; in pazienti selezionati con infarto miocardico acuto prima, durante e dopo la rivascolarizzazione; in casi di shock cardiogeno secondario a miocardite severa acuta; o ancora come suggerito da più recenti evidenze, in caso di shock cardiogeno associato a mancata o inefficace rivascolarizzazione miocardica.

Partendo da queste premesse, non dovrebbero stupire più di tanto i risultati dell’IABP-SHOCK II trial, nemmeno quelli ottenuti dall’analisi dei risultati a lungo termine dopo 6 anni di follow-up che confermano l’effetto neutrale dell’utilizzo dell’IABP sulla mortalità a 30 giorni.

In ultima analisi si può concludere che quando nel paziente è necessario ridurre il postcarico e la terapia farmacologica non risulta sufficiente, l’IABP può rappresentare una valida alternativa, mentre quando il nostro target terapeutico è aumentare la portata cardiaca, nei casi di shock cardiogeno conclamato, dobbiamo rivolgerci necessariamente ad altri sistemi di supporto, non escludendo, in alcuni casi, la possibilità di associare anche l’utilizzo dell’IABP per contrastare il possibile aumento del postcarico legato all’utilizzo degli altri dispositivi.

 

Danilo Puccio