L’IPERTENSIONE ARTERIOSA RESISTENTE

Riccardo Barucci

L’ipertensione arteriosa resistente è frequente e spesso sottostimata: a seconda della popolazione di riferimento interessa circa il 5-30% degli ipertesi. L’approccio diagnostico richiede una corretta anamnesi, un meticoloso esame obiettivo, test di laboratorio per identificare fattori di rischio associati. Il trattamento farmacologico è spesso difficoltoso e può richiedere più farmaci. La ricerca in questa area è in corso e nuove procedure invasive sono oggetto di studio.

L’ipertensione arteriosa resistente è definita come una condizione clinica caratterizzata da una pressione arteriosa costantemente al di sopra dei valori standard a dispetto del concomitante uso di un diuretico e almeno due agenti antipertensivi di differenti classi. Inoltre tutti gli agenti utilizzati devono essere assunti alle dosi terapeutiche ottimali. Questa condizione clinica è frequente e spesso sottostimata: a seconda della popolazione di riferimento interessa circa il 5-30% degli ipertesi. È spesso associata ad un elevato rischio cardiovascolare ed eventi renali. L’ipertensione resistente può essere reale, apparente o spuria. Un caso frequente di ipertensione resistente spuria è la mancata aderenza al trattamento farmacologico prescritto, dovuto alla bassa percentuale di controllo pressorio nella popolazione di ipertesi.
La mancanza di controllo della pressione arteriosa può, comunque, dipendere da molteplici fattori tra cui la pseudo-ipertensione ovvero una marcata rigidità arteriosa, molto comune nell’anziano che previene l’occlusione dell’arteria brachiale. L’ipertensione resistente vera può originare da un non corretto stile di vita, dall’obesità o dall’eccessivo consumo di alcool, che contrastano con gli effetti antipertensivi della terapia mediante vasocostrizione sistemica, ritenzione sodica e di acqua. Tra gli altri fattori si ricorda la presenza della sindrome delle apnee notturne o da forme non riconosciute di ipertensione secondaria.
L’approccio diagnostico necessita di una corretta anamnesi (includendo le abitudini dello stile di vita), un meticoloso esame obiettivo e test di laboratorio per identificare fattori di rischio associati, una valutazione della disfunzione renale e dalla eventuale presenza di stenosi delle arterie renali.
Per quanto riguarda la terapia la maggior parte dei pazienti con questa condizione richiedono la somministrazione di più di tre farmaci. Una buona risposta è stata mostrata dall’impiego dell’antagonista del recettore dei mineralcorticoidi anche a basse dosi. Nuovi farmaci antipertensivi come per esempio i “produttori”di ossido nitrico, antagonisti della vasopressina, inibitori dell’endopeptidasi neutra, inibitori della sintetasi dell’aldosterone, sono nelle prime fasi di valutazione, ma non sono ancora entrati nella pratica clinica.
Un approccio terapeutico invasivo di crescente interesse per l’ipertensione resistente è la distruzione bilaterale dei nervi renali, mediante l’ablazione con cateteri a radiofrequenza inseriti per via percutanea attraverso l’arteria femorale.
Altra metodica di recente sviluppo consiste nella stimolazione elettrica cronica del seno carotideo mediante uno stimolatore impiantabile.
La ricerca in questa area è in corso e nuove procedure invasive sono in corso di studio.

 


 

LA DIMISSIONE DOPO SINDROME CORONARICA ACUTA: CRITICITÀ E OPPORTUNITÀ

di Daniele Grosseto

Una delle sfide della cardiologia del domani sarà quella di migliorare la sopravvivenza post dimissione dei pazienti colpiti da sindrome coronarica acuta. Questo è sostanzialmente il “take home message” emerso nel corso della Main Session sulle criticità e opportunità del paziente alla dimissione per SCA.
I dati infatti sull’outcome post dimissione sono, per certi versi, allarmanti e mostrano una mortalità in crescita parallelamente ad una riduzione della mortalità intraospedaliera. Questo si associa ad un aumento dell’incidenza dello scompenso cardiaco e a una progressiva riduzione della aderenza alla terapia nel post dimissione.
Quindi se da un lato curiamo bene i pazienti nella fase acuta dell’infarto, dall’altro questo determina un aumento del numero di pazienti gravi che avranno nel decorso post ospedaliero comparsa di scompenso, recidive ischemiche e nuovi ricoveri.
Questo trend deve essere fermato e questo lo si può fare essenzialmente migliorando la gestione della fase post ospedaliera, attraverso un miglioramento della gestione post dimissione.
La strategia di miglioramento della fase post dimissione si attua attraverso un miglioramento delle strutture di cardiologia riabilitativa, intese non solo come reparto degenziale ma anche e soprattutto attraverso modelli organizzativi che vedano più figure coinvolte non solo medici, ma anche infermieri, psicologi, dietisti, fisioterapisti.
Fondamentale è quindi inquadrare correttamente il paziente in base al profilo di rischio e offrire ad ogni paziente il programma terapeutico adattato al suo profilo di rischio, in un’ottica di utilizzo appropriato delle risorse.
È una grande sfida che si gioca sia sul piano clinico che organizzativo, ma è una sfida che non può essere disattesa e al cui risultato devono concorrere tutte le figure che possono garantire il miglioramento della qualità e della quantità di vita dei pazienti infartuati.