Minimaster Cardiologia Interventistica: Update per il Cardiologo Clinico

Danilo Puccio
Tra strategie terapeutiche, tecniche e device in continua e rapida evoluzione, cosa deve necessariamente conoscere il cardiologo clinico

In questo nuovo format congressuale più che mai all’insegna dell’evoluzione ritroviamo pur sempre, come appuntamento costante all’apertura dei lavori congressuali, gli apprezzatissimi Minimaster, in particolare di sicuro interesse è stato quello dedicato all’aggiornamento per il cardiologo clinico in tema di cardiologia interventistica.

Si è scelto di suddividerlo in due sessioni principali, la prima dedicata alle sindromi coronariche acute e la seconda alle sindromi coronariche croniche.

Ha aperto i lavori il Dott. C. Baldi affrontando dapprima il tema dell’importanza della stratificazione del rischio nel paziente con sindrome coronarica acuta. Dati provenienti dal registro italiano EYESHOT evidenziano come ancora vengano sottoutilizzati gli score di rischio ischemico, il più diffuso dei quali il GRACE risk, nonostante, quando impiegati, questi mettano in evidenza che più del 60% dei nostri pazienti appartenga alla categoria a più alto rischio (>140pt). Parimenti, ancora non pienamente utilizzati sono gli score di rischio emorragico, tra questi il più diffuso il CRUSADE risk, nonostante circa un terzo dei nostri pazienti appartenga alla categoria a più alto rischio. Si è poi discusso del trattamento anti-trombotico pre-ospedaliero, tema sempre estremamente dibattuto, poiché se da un lato offre indubbi vantaggi in termini di riduzione del rischio di complicanze trombotiche precoci, dall’altro espone ad un maggior rischio di complicanze emorragiche periprocedurali che comportano anche prolungamenti della degenza ospedaliera e aumenti dei costi.

Sebbene i trial condotti sull’argomento non abbiano fornito una solida evidenza per un approccio up-stream, secondo le attuali linee guida, sia nel setting dello STEMI che delle NSTE-ACS rimane sempre da preferire, non appena posta la diagnosi, la somministrazione di un potente inibitore del P2Y12 (con le dovute differenze tra ticagrelor e prasugrel a seconda del setting clinico in cui ci troviamo), relegando il clopidogrel ai casi in cui farmaci più potenti non siano un’opzione praticabile.

Il Dott. D. Rutigliano ha poi illustrato gli aspetti più pragmatici in tema di angioplastica primaria in corso di STEMI, soffermandosi sull’efficacia degli stents medicati di ultima generazione in termini di rischio di re-stenosi e di trombosi di stent e sui casi realmente selezionati in cui appare utile l’impiego della tromboaspirazione e degli inibitori delle glicoproteine IIb-IIIa, l’uso routinario dei quali è da ritenersi invece controindicato. Ha quindi completato il suo intervento illustrando l’appropriatezza in corso di STEMI del completamento della rivascolarizzazione delle lesioni non culprit prima della dimissione ospedaliera, a differenza dei casi di shock cardiogeno in cui la rivascolarizzazione routinaria delle lesioni non colpevoli appare controindicata alla luce dei risultati del recente CULPRIT-SHOCK trial.

L’intervento successivo del Dott. G. Gabrielli ha trattato le possibili diverse strategie terapeutiche e il timing ottimale per la rivascolarizzazione miocardica nel paziente con NSTE-ACS.

La presentazione clinica del paziente e la presenza di specifici fattori di rischio condizionano necessariamente sia la strategia di intervento che il timing della procedura angiografica e di rivascolarizzazione, nonché la modalità stessa della rivascolarizzazione. Infatti, una puntuale e rapida stratificazione del rischio è fondamentale, ad esempio, per poter distinguere casi definiti STEMI-like, ovvero a rischio molto alto, il cui management prevede l’esecuzione della rivascolarizzazione entro 2 ore. Anche nel setting del NSTE-ACS la strategia invasiva deve mirare alla rivascolarizzazione completa, poiché è dimostrato come la prognosi dei pazienti con rivascolarizzazione incompleta sia peggiore.

Riguardo le modalità di rivascolarizzazione, la scelta tra PCI e CABG deve essere indirizzata dalle caratteristiche cliniche e anatomiche coronariche del paziente. Grazie ad un progressivo e continuo avanzamento tecnico e tecnologico delle procedure percutanee, negli ultimi anni si è avuta una progressiva riduzione del ricorso alla rivascolarizzazione chirurgica e un parallelo incremento dei pazienti sottoposti a PCI e ad oggi, soltanto il 5-10% dei pazienti NSTE-ACS vengono sottoposti a CABG. È comunque sempre auspicabile, specie nei casi più complessi, un approccio multidisciplinare e la discussione in Heart Team.

Ha concluso la prima sessione del Minimaster il Dott. J. A. Oreglia, a cui è stato affidato l’argomento sui dispositivi di supporto meccanico al circolo nei casi di shock cardiogeno, presentazione clinica o temibile complicanza in corso di ACS, la cui incidenza è rimasta più o meno stabile negli anni (7-9% delle ACS), ma la cui mortalità è ancora molto elevata. Esistono diversi sistemi di assistenza, intracorporei o extracorporei, dotati di diversi effetti emodinamici (pulsatili o continui) e con diverse indicazioni. Ad oggi vi è ancora una sostanziale assenza di dati provenienti da trial randomizzati sull’utilizzo di tali sistemi di supporto meccanico al circolo, risultati incoraggianti sembrano arrivare tuttavia da esperienze di adozione sistematica di devices come l’Impella nelle fasi più precoci dello shock. Tutto ciò premesso, sarebbe auspicabile poter centralizzare il paziente verso strutture HUB con esperienza, dotate di diversi sistemi di supporto meccanico al circolo, i cosiddetti Cardiac Shock Care Centers, favorendo quindi la creazione e/o lo sviluppo di Shock-Team dedicati.

La seconda sessione del Minimaster si è concentrata invece sui diversi aspetti delle sindromi coronariche croniche, primo fra tutti la corretta indicazione alla rivascolarizzazione miocardica, affrontata dal Dott. F. Amico. Soltanto i pazienti con sintomi anginosi non controllati da una terapia medica ottimale ed in presenza di un’estesa area ischemica dovrebbero essere avviati ad un approccio diagnostico invasivo per una eventuale rivascolarizzazione, poiché, come è noto, dai tempi del COURAGE fino ad arrivare al più recente ISCHEMIA trial, la strategia invasiva quando confrontata con quella conservativa, non dimostra una significativa riduzione degli endpoint hard (mortalità in primis), bensì risulta capace di influenzare favorevolmente la qualità vita e il miglioramento nel controllo dei sintomi. Pertanto, così come raccomandato dalle ultime linee guide ESC sull’argomento, l’indicazione alla rivascolarizzazione miocardica deve basarsi su elementi anatomici e soprattutto funzionali, affrancandosi definitivamente dal famoso riflesso oculo-stenotico dell’emodinamista.

Proprio su questi due ultimi aspetti si sono confrontati i due relatori successivi, il Dott. D. Formigli che ha illustrato le metodiche di valutazione funzionale del potere ischemizzante delle lesioni coronariche, incentrando il suo contributo sulla valutazione tramite la stima della FFR (Riserva Frazionale di Flusso) che, ad oggi rappresenta il gold standard per la diagnosi e la strategia terapeutica nei pazienti con angina stabile; il più grande limite nell’utilizzo di tale metodica tuttavia, è l’essere dipendente comunque da un approccio angiografico invasivo, limite superato dai test funzionali di imaging non invasivi (ecostress, scintigrafia miocardica, stress cardio-RM) e dalla promettente FFRct, una stima funzionale tramite FFR derivata dalla tomografia computerizzata coronarica.

Le modalità di studio morfologico delle lesioni coronariche sono state trattate invece dal Dott. C. Cernetti che ha focalizzato la sua relazione sulle metodiche di imaging intracoronarico, quali l’IVUS e l’OCT, le quali offrono indiscussi vantaggi rispetto alla sola visione bidimensionale ottenuta con la classica angiografia coronarica, in quanto consentono di caratterizzare al meglio la morfologia della placca aterosclerotica, di dirimere nei casi dubbi la lesione culprit, di scegliere le più idonee dimensioni dello stent da utilizzare e di controllarne il risultato dopo il suo posizionamento e la sua corretta espansione, di minimizzare infine le possibili complicanze correlate alla procedura stessa di PCI. Malgrado questi vantaggi e nonostante esista un’abbondante letteratura a favore del loro utilizzo, tuttavia, queste metodiche ancor oggi rimangono poco impiegate a causa del loro alto costo, non ancora soggetto a rimborsabilità da parte del SSN, nonché a causa del prolungamento della durata della procedura e dell’incremento della quantità di mezzo di contrasto utilizzato.

Ha concluso la sessione l’intervento del Dott. L. Fiocca che ha presentato le principali tecniche di rivascolarizzazione delle lesioni coronariche complesse, quelle che vengono definite come CHIP-PCI [Complex Higher-Risk (And Indicated) Patients – PCI]. La loro complessità deriva sia da caratteristiche insite al paziente (età avanzata, disfunzione ventricolare sinistra, pregresso CABG, IRC), sia da caratteristiche correlate direttamente alla procedura (lesioni del tronco comune, occlusioni croniche totali, lesioni fortemente calcifiche, last remaining vessel o necessità di supporto meccanico al circolo). Il numero di tali procedure complesse è andato via via incrementando negli anni, sia a causa dell’età sempre più avanzata e delle pluri-comorbilità dei pazienti trattati, sia grazie ai progressi tecnici e metodologici, nonché alla maggior competenza acquisita dagli operatori.

 

Danilo Puccio