CONVENTION UTIC: È IL MOMENTO DI PASSARE ALLA UACC?

Daniele Grosseto

Quali scenari per il prossimo futuro della Terapia Intensiva Cardiologica? Come possiamo trasformare un momento di difficoltà in una grande occasione di crescita della Cardiologia?

Anche quest’anno la tradizionale Convention delle UTIC non ha disatteso le aspettative dei partecipanti per quanto riguarda l’interesse e l’attualità dei temi trattati. Del resto il tema è sicuramente uno dei più scottanti a cui deve rispondere la Cardiologia, non solo italiana, di questi ultimi 20 anni. Il livello di eccellenza raggiunto nel trattamento della cardiopatia ischemica, il miglioramento della cura di patologie internistiche gravi, il riassetto organizzativo delle strutture sanitarie, hanno contribuito a cambiare profondamente il case mix dei pazienti che accedono alle nostre UTIC. Se un cardiologo degli anni ‘90 venisse proiettato in una UTIC del 2015, molto probabilmente penserebbe di aver sbagliato reparto. L’UTIC sta perdendo, o nel caso di molte UTIC spoke ha già perso, il proprio core business, e un’azienda che perde il proprio core business, o si riorganizza su un’altra fetta di mercato o chiude. Inutile trovare espedienti e alibi: non si può pensare di dare risposte credibili nel 2015 leggendo la realtà con gli occhi del 1990. Difendere la centralità dell’UTIC e del paziente cardiologico, solo partendo da una difesa corporativista della categoria, ci fa perdere la battaglia prima di iniziarla. Dobbiamo invece intercettare i bisogni del sistema sanitario attuale, che deve razionalizzare i consumi migliorando gli esiti e dobbiamo coniugarli in modo virtuoso con la specificità della nostra migliore cultura cardiologica. È su questo piano che la cardiologia del 2015 può e deve giocarsi la sfida non del futuro ma del presente. E’ questo che hanno capito negli Stati Uniti dove dopo decenni di terapia intensiva generalista, hanno maturato la convinzione che sia necessaria una Terapia Intensiva Cardiologica per migliorare l’outcome del paziente cardiologico. Se invece intendiamo questa battaglia, come una contesa da una lato con gli internisti e dall’altro con i rianimatori, è meglio sapere da subito che la battaglia la perderemo e il modello “per intensità di cura” aprirà le porte alla figura del cardiologo consulente, da un lato degli internisti, dall’altro dei rianimatori. Questo sì che significherebbe la morte della cultura cardiologica. E’ in questo contesto che la Convention ha proposto il modello UACC, Unità ad Alta Complessità di Cura, un modello che vuole rimodulare le offerte delle UTIC in base alla complessità di cura che possono offrire. Se infatti la griglia di lettura dei decisori pubblici, nel giudicare il lavoro delle UTIC è quella delle UTCI Hub, è ovvio che il lavoro delle UTIC Spoke appare come inutile e dispendioso, e pertanto da eliminare. La UACC deve invece andare oltre questo modello e deve differenziare le strutture in base alla complessità assistenziale che possono offrire. Se pensiamo al paziente cardiopatico nella fase post chirurgica, al severo scompenso cardiaco con necessità di terapia sostitutiva renale, al cardiopatico con complicanze settiche, al cardiopatico con necessità di supporto ventilatorio, allo stato di bassa portata fino allo shock cardiogeno, ci accorgiamo che la quota di pazienti che possono beneficiare della Terapia Intensiva Cardiologica è enorme e la specificità culturale che può offrire il cardiologo è unica e non paragonabile a quella dei colleghi internisti, nefrologi, pneumologi o rianimatori. È certo pero che alla base di questo ci deve essere un percorso di crescita culturale importante, di aggiornamento, di acquisizione di competenze, in cui le società scientifiche, ANMCO, ESC stanno lavorando, ma che ancora non soddisfa appieno le necessita di cardiologi intensivisti del mercato. Sicuramente però al di là dell’offerta formativa che deve essere migliorata ci deve essere una spinta motivazionale forte di ogni cardiologo a crescere culturalmente in ambiti non solo cardiologici e questa spinta deve essere incoraggiata dalle apicalità che per primi devono spingere i giovani cardiologi a cambiare un atteggiamento culturale troppo rigido e protezionistico. È in questa sfida, innanzitutto culturale, che si gioca il futuro della cardiologia italiana ed è una sfida che tutti noi cardiologi dobbiamo accettare con coraggio e intraprendenza. Dobbiamo scegliere se essere consulenti superspecializzati o veri cardiologi che conoscono a fondo e gestiscono con competenza i loro pazienti. Dobbiamo scegliere se vogliamo che il cardiologo del futuro sia una comparsa di questa pièce teatrale o sia l’attore protagonista. Solo a noi il compito di scegliere il ruolo.