LA FORMAZIONE DEL CARDIOLOGO IN OSPEDALE: IL MOMENTO DI AGIRE

Maria Grazia D’Alfonso

Anche le Società Scientifiche internazionali hanno colto tali cambiamenti epidemiologici e scientifici e hanno risposto all’esigenza di adeguare le competenze del Cardiologo attraverso la stesura di un curriculum dettagliato per intensivisti.

Oggi in Sala Pier Filippo Fazzini Ezio Giovannini e Gianfranco Mazzotta modereranno il simposio dal titolo “La formazione del Cardiologo in ospedale: il momento di agire”.
Da tempo si sta assistendo a profondi cambiamenti socio-epidemiologici, scientifici e di natura economico-sanitaria che hanno di fatto già innescato la trasformazione strutturale e gestionale dei nostri ospedali. Proprio da tale intricata serie di mutamenti è emersa l’esigenza di adeguare le competenze del Cardiologo alla nuova realtà in cui operiamo. Da una parte, infatti, il cambiamento epidemiologico con il progressivo invecchiamento della popolazione generale, ci propone un malato più anziano, con un maggior carico di comorbidità e un più precario equilibrio cardiovascolare, e soprattutto con un bisogno assistenziale crescente. D’altro canto, la frenetica innovazione tecnologica e scientifica, l’evoluzione delle strategie terapeutiche ad esempio dello shock cardiogeno e delle sindromi coronariche acute, ci offrono un bagaglio diagnostico e terapeutico non indifferente che ci garantisce la possibilità di curare al meglio i malati così definiti “complessi”.
Siamo, pertanto, davanti a uno scenario epocale, una “Seconda Rivoluzione Cardiologica”, come viene correntemente definita dagli addetti al settore, che vede la trasformazione, ormai di fatto già avvenuta, delle Terapie Intensive da Unità di Terapia Intensiva Coronariche (volte alla gestione precoce e alle complicanze dell’infarto miocardico acuto) alle Unità di Terapia Intensiva Cardiologiche. Non si tratta solo di un cambiamento semantico, ma di un mutamento organizzativo e gestionale, che, oltre a rientrare in una riorganizzazione di più ampio respiro delle strutture ospedaliere sempre più orientate verso la gestione degli “acuti”, modifica profondamente il ruolo del Cardiologo nella cura del malato. È in tale contesto che si inserisce la necessità della formazione del Cardiologo, che non vuol dire “tras-formarsi” in un’altra figura professionale, ma evolversi attraverso l’acquisizione di una serie di Competence.
Anche le società scientifiche internazionali hanno colto tali cambiamenti epidemiologici e scientifici e hanno risposto all’esigenza di adeguare le competenze attraverso la stesura di un curriculum dettagliato per intensivisti. Si tratta di un percorso formativo che naturalmente va adeguato, non solo al personale clinamen, ma anche alla realtà ospedaliera in cui si opera e che prevede la conoscenza di presidi diagnostici e terapeutici, appannaggio fino a qualche tempo fa di altri specialisti, in particolare rianimatori.
Forse l’affermazione futuristica e iperbolica “We should retire the stethoscope!” di Vincentiana memoria in parte rispecchia i cambiamenti in atto, sia in ambito internazionale che in ambito nazionale. È dunque davvero giunto il momento di agire!

 


 

 

IL RUOLO DEL CARDIOLOGO NELLA STROKE UNIT

di Daniele Grosseto

 

Il Simposio Congiunto tra ANMCO e ISO (Italian Stroke Organization) ha affrontato in modo chiaro e pragmatico i punti salienti che il cardiologo si trova spesso ad affrontare di fronte ad un paziente con ictus ischemico.
Un ruolo, quello del cardiologo, che ovviamente non è limitata alle strutture dotate di stroke unit ma a tutti gli ospedali dove siano trattati pazienti con ictus.
L’evento ha visto la presenza di neurologi e cardiologi che hanno sviscerato un tema attuale, sul quale i comportamenti non sono uniformi. Vediamo quali sono stati i principali temi.
Quando iniziare la terapia anticoagulante nel paziente con ictus ischemico cardioembolico? È stata ribadita la necessità di bilanciare con attenzione il rischio di recidiva ischemica con l’evoluzione emorragica dello stroke ischemico. Sotto questo profilo le evidenze sconsigliano l’utilizzo di anticoagulanti nelle prime due settimane dopo ictus maggiori, mentre vi è indicazione all’inizio della TAO appena è possibile nello stroke minore e nel TIA, mentre è opportuno evitare le eparine nei primi sette giorni. Novità sostanziali non sono arrivate dall’introduzione in commercio dei NOACS poiché nei trial in cui sono stati testati questi farmaci, sono stati esclusi i pazienti con ictus nei primi 7-14 giorni.
È stato poi chiaramente messo in luce quanto sia importante non fermarsi alla diagnosi, spesso di comodo, di ictus criptogenetico, poiché sono moltissime le evidenze che alla base di molti casi di stroke idiopatico vi sia una fibrillazione atriale che non è stata intercettata. Non è ovviamente possibile estendere l’indicazione alla terapia anticoagulante a tutti i casi di ictus criptogenetico, ma dal panel è emersa una indicazione forte a non fermarsi alla prima diagnosi, ma di ricercare in modo approfondito la presenza di episodi di fibrillazione atriale parossistica misconosciuti.
Un altro ambito nel quale il cardiologo è chiamato in causa è rappresentato dai pazienti con stroke e concomitante sindrome coronarica acuta. Le indicazioni emerse sono state rassicuranti, sia verso l’utilizzo della triplice terapia che deve però essere attuata con il farmaco più sicuro (i dati al momento sono a favore del clopidogrel) e per il minor tempo possibile, sia per quanto riguarda l’associazione con i nuovi anticoagulanti per i quali rimane una indicazione all’utilizzo di clopidogrel.
Il simposio si è chiuso infine con una relazione sul trattamento del forame ovale pervio. Dopo anni in cui la chiusura del PFO sembrava essere il futuro della interventistica non coronarica, attualmente gli studi hanno fortemente ridimensionato le indicazione al trattamento percutaneo.
La comparazione infatti tra la terapia medica e la chiusura percutanea del PFO, in pazienti con ictus, non ha mostrato un vantaggio a favore di quest’ultimo. A maggior ragione poi non vi sono evidenze nel trattamento in prevenzione primaria, nei pazienti in cui viene fatta diagnosi di PFO.
L’Italia parteciperà al dibattito attualmente esistente su questo argomento con uno studio, l’Option, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità che raccoglierà i dati di procedura e di follow up dei pazienti sottoposti a chiusura percutanea del PFO.

 


 

VIAGGIO NELLE LINEE GUIDA ESC DELL’IPERTENSIONE ARTERIOSA POLMONARE

di Emilia Biscottini

Il primo pensiero che un Cardiologo ha di fronte all’intrigato algoritmo diagnostico dell’ipertensione polmonare è senza dubbio“troppo complicato!”
Eppure tutti noi, ogni giorno, refertiamo esami ecocardiografici in cui ci capita di rilevare un incremento della pressione polmonare stimata, scrivendo superficialmente il dato numerico che poi “forse” verrà interpretato…
Cominciamo con il distinguere l’ipertensione polmonare, condizione emodinamica generica associata a molteplici patologie di cuore e polmone, dall’ipertensione arteriosa polmonare (gruppo ben definito di patologie compresa la forma idiopatica) e con il ricordarci che la vera definizione diagnostica di IP impone il cateterismo cardiaco con riscontro di una PAP media > 25 mmHg a riposo.
Nel caso di patologie del cuore sinistro, l’ipertensione polmonare è presente praticamente in tutti i pazienti affetti da patologia della valvola mitralica così come in buona parte di quelli con stenosi aortica sintomatica; è quindi d’obbligo misurarla soprattutto nei casi in cui i sintomi possono essere sottostimati o prima di decidere se procedere ad un intervento cardiochirurgico.
Ma in quali altri casi va ricercata? Sicuramente nel caso in cui ci sia un sospetto clinico, oltre che in pazienti asintomatici che meritano un accurato screening in quanto a rischio di svilupparla (pazienti sclerodermici, affetti da cirrosi epatica in attesa di trapianto, portatori di mutazione per IP idiopatica) e in tal senso l’ecocardiogramma rimane un eccellente test non invasivo. La conferma mediante cateterismo arriverà in un secondo momento, per stimare la severità emodinamica e testare la vasoreattività del circolo polmonare, in modo da decidere se una terapia con calcio-antagonista possa essere utile o meno. Troppo spesso misconosciute restano invece le forme post-tromboemboliche, dato che i pazienti non vengono abitualmente indirizzati ad un corretto follow-up al momento della dimissione. Dopo un periodo di “luna di miele” infatti, l’albero vascolare danneggiato va incontro a processi di rimodellamento e sviluppa ipertensione polmonare che può rimanere non diagnosticata o erroneamente attribuita ad altre cause. Non sottovalutiamo il fatto che spesso i quadri patologici possono sovrapporsi, rendendo la diagnosi ancora più complicata; è quindi auspicabile un lavoro in team così come la possibilità di indirizzare il paziente verso centri specializzati. Soltanto così eviteremo di esporre i nostri pazienti al rischio della mancata diagnosi e gli daremo eventualmente la possibilità di usufruire di nuovi farmaci che stanno entrando in commercio nell’ambito dell’ipertensione polmonare idiopatica e nella forma tromboembolica.

 

 


 

 

LA CARDIOLOGIA DEGLI ULTIMI: IL GRANDE ANZIANO

di Alessandra Pratesi

 

La cardiologia geriatrica è effettivamente spesso considerata la “cardiologia degli ultimi”, ma non è forse vero che i nostri ospedali sono affollati di anziani e non di giovani?

Nella Cardiologia tradizionale di fronte all’anziano, e ancora di più al grande anziano, ci sono di solito due atteggiamenti: o l’interventismo o l’ageismo. L’uno consiste nel trattare il paziente in maniera invasiva, aggressiva, trattandolo come se fosse “un giovane di belle speranze”, l’altro, assai più frequente, si espleta in un attendismo infruttuoso o in una condanna prematura “dovuta all’età”. Quindi per molti anni nei nostri ospedali abbiamo mietuto vittime (sia in termini di mortalità che di disabilità), senza riflettere più del dovuto sul problema. E di certo non ci viene in aiuto la ricerca scientifica: basti pensare ai grandi trial clinici randomizzati sui farmaci più moderni. L’età media delle popolazioni dei trial è intorno ai 70 anni, come se l’infarto miocardico o la fibrillazione atriale, per citarne alcune, non fossero malattie la cui incidenza aumenta in maniera direttamente proporzionale all’età.
Oggi però questo atteggiamento non è più giustificabile: l’aspettativa media di vita è aumentata e continua a farlo, i nostri reparti sono affollati di anziani complessi, verso i quali dobbiamo avere non atteggiamenti standard, ma una particolare attenzione.
Questi infatti sono pazienti che se non gestiti adeguatamente vanno incontro a perdita di autonomia funzionale, disabilità, frequenti reospedalizzazioni e peggior prognosi quoad vitam e quoad valetudinem. L’inquadramento prognostico del paziente anziano cardiopatico non viene fatto in maniera sistematica, anche perché mancano score specifici validati in questa tipologia di pazienti. Esistono però strumenti di uso comune per il geriatra di ottima capacità prognostica per gli anziani, che stanno entrando nella pratica clinica di alcune realtà, come quella cardiologica fiorentina, dove esiste una particolare sensibilità a questo tipo di problematica. Quante volte ci troviamo a scegliere se vale la pena impiantare un pacemaker biventricolare-ICD ad un paziente anziano scompensato? Se può essere favorevole in termini di rischio/beneficio sottoporlo ad uno studio coronarografico o ad una rivascolarizzazione percutanea? Quale può essere la migliore opzione terapeutica tra TAVI e intervento di cardiochirurgia in caso di stenosi aortica severa?
In questo campo ancora molto resta da fare in termini di cultura, di integrazione di competenze e di studi clinici. Speriamo che questo simposio rappresenti un utile occasione di riflessione, e perché no apprendimento, per tutti i Cardiologi che si trovano di fronte al grande anziano, e che rappresenti l’inizio della creazione di una nuova cultura clinica che sa prendersi cura dei nostri genitori e nonni.