Rivaroxaban: la protezione su misura per i pazienti con patologie cardiovascolari

Danilo Puccio

Vi è uno sforzo sempre maggiore da parte della comunità medico scientifica per cercare di passare da un approccio terapeutico “one-size fits all” ad una terapia sempre più personalizzata, mirata sul singolo paziente. Un esempio di tale tendenza è quanto emerso nel corso del luncheon panel tenutosi in Sala Agorà dove sono stati affrontati alcuni degli aspetti terapeutico-gestionali peculiari del paziente fragile, di quello affetto da insufficienza renale (IR) e del paziente neoplastico, con un focus particolare sull’utilizzo del rivaroxaban in tali settings clinici. Inizialmente il Dott. Stefano Urbinati ha affrontato il tema della gestione del paziente fragile affetto da fibrillazione atriale (FA), partendo dal concetto di fragilità che è espressione delle conseguenze di una serie di comorbidità sull’autonomia funzionale, di un decadimento cognitivo e dell’aumentato rischio di eventi life-threatening, tra le quali le emorragie. Tale condizione finisce per vincolare notevolmente le nostre scelte terapeutiche, ancor di più quando si tratta di terapie anticoagulanti, tuttavia è opportuno tener presente che un elevato rischio di caduta, elemento indiscusso di fragilità, non controindica l’anticoagulazione del paziente, poiché finora non si è dimostrata una correlazione tra esso e i major bleedings. Malgrado sia ormai ben consolidato come l’acido acetilsalicilico non sia né più efficace né più sicuro di un vitamin K antagonist (VKA) nel paziente anziano con FA, a tutt’oggi ancora una larga percentuale di pazienti praticano tale terapia, paradossalmente a causa proprio delle temute complicanze emorragiche intercorrenti. Di contro è anche dimostrato come la terapia con VKA nel paziente fragile si associ ad un aumentato rischio di eventi emorragici nel corso del primo mese a causa essenzialmente delle frequenti fluttuazioni iniziali dell’INR. Da un recente studio cinese, che ha indagato specificatamente su una popolazione ultranovantenne gli effetti delle varie terapie anticoagulanti orali, è emerso che i farmaci anticoagulanti orali non VKA (NOACs) mantengono il loro elevato vantaggio nei confronti delle emorragie intracraniche rispetto al VKA anche in questa specifica popolazione. Alcune evidenze riguardo la sicurezza dei NOACs ed in particolare del rivaroxaban nel paziente fragile arrivano indirettamente anche dal Rocket-AF, cosi come da recentissimi studi di real world dove si è potuto dimostrare come il rivaroxaban a differenza dell’apixaban e del dabigatran si associ, nei 2 anni di follow-up, ad una riduzione del rischio tromboembolico nei pazienti fragili senza che ciò comporti un eccesso di sanguinamenti rispetto al VKA. La Dott.ssa Roberta Rossini ha poi posto l’accento inizialmente sull’appropriatezza nel mondo reale dei criteri di riduzione di dose dei NOACs, poiché vi è una tendenza collettiva ad eccedere con la prescrizione dei bassi dosaggi a causa sia del generale timore dei sanguinamenti, sia per la fragilità del paziente; ad esempio tale prescrizione per l’apixaban risulta essere 8 volte maggiore rispetto alla reale corrispondenza dei criteri di riduzione di dose e ovviamente tutto ciò si traduce inevitabilmente in una riduzione dell’efficacia del trattamento. Tra le condizioni in cui può essere appropriata una riduzione della dose dei NOACs vi è la presenza di IR, essa è infatti riscontrabile in un terzo dei pazienti con FA. Il Danish Registry dimostra come tale importante comorbilità sia associata ad un elevato rischio ischemico, ma anche ad un significativo incremento del rischio emorragico. Appare dunque chiaro come in tale setting clinico sia importante la scelta della terapia più adeguata. Tra i NOACs quello che presenta minor escrezione renale è l’apixaban seguito dal rivaroxaban, mentre il dabigatran, a causa della sua prevalente clearance renale risulta non indicato per valori di eGFR < 30ml/min. Rivaroxaban è l’unico NOAC che è stato studiato in modo prospettico con uno specifico “dosaggio renale” e la farmacocinetica del rivaroxaban 15mg. nel paziente con IR risulta del tutto sovrapponibile a quella del 20mg nel paziente senza IR. Anche a bassa dose il rivaroxaban conserva sia l’efficacia che la sua safety, nonostante il numero assoluto degli eventi avversi possa essere inevitabilmente più elevato a causa del maggior rischio legato all’IR di per sé. Recenti evidenze suggeriscono che i NOACs, in particolare il rivaroxaban e il dabigatran avrebbero anche un effetto protettivo rispetto al VKA nei confronti del deterioramento della funzione renale e uno studio di real world tuttora ongoing (XARENO) potrà chiarire ulteriormente tale aspetto. Anche il paziente oncologico rappresenta un setting clinico dove più che mai è necessaria una terapia individualizzata, sia quando coesiste il Trombo-Embolismo Venoso (TEV) sia quando è presente la FA. Partendo dai risultati dei trials HOKUSAI VTE Cancer e SELECT-D, il Dott. Nicola Maurea ha esposto come sono state influenzate le ultime linee guida ISTH/SSC nel setting clinico del paziente neoplastico con VTE, dove adesso viene suggerito l’uso di rivaroxaban o edoxaban in assenza di un alto rischio di sanguinamento, di neoplasie gastrointestinali e del tratto genitourinario, nonchè di interazioni farmacologiche significative, rivalutando l’appropriatezza di tale indicazione trimestralmente. Minori certezze invece esistono nel setting clinico del paziente neoplastico con FA, due condizioni potenzialmente collegate da molteplici meccanismi patogenetici, finanche alcuni agenti antineoplastici come le antracicline e il più recente ibrutinib possono di fatto favorire l’insorgenza di tale aritmia. Ugualmente in tale contesto appare fondamentale un iniziale valutazione del rischio di sanguinamento correlato al tipo di cancro e alle specifiche terapie oncologiche e soltanto in assenza di caratteristiche di alto rischio, se il CHA2DS2VASc è elevato e l’HASBLED basso il paziente risulta candidabile ad una profilassi tromboembolica con NOAC.