MINIMASTER CUORE E RENE

Maria Grazia D’Alfonso

Il primo giorno di questa nuova edizione del Congresso Nazionale ANMCO 2014 si apre con una serie di Minimaster dai topic accattivanti e di estrema attualità. In particolare nella Sala Giorgio Antonio Feruglio l’intera mattina sarà dedicata a un importante approfondimento scientifico sulle interazioni tra cuore e rene nei diversi setting clinici.
Parafrasando Choderlos de Laclos, possiamo dire che le relazioni tra cuore e rene sono davvero pericolose! Senza scomodare i dati di illustri registri e le analisi di importanti trial clinici, giornalmente, nella nostra pratica clinica, dai remoti presidi nosocomiali alle più accessoriate aziende ospedaliere, osserviamo che i pazienti con malattia renale cronica presentano un maggior rischio sia di malattia aterosclerotica che di scompenso cardiaco e che la malattia cardiovascolare rappresenta la causa del decesso nel 50% dei pazienti con insufficienza renale. D’altro canto, alla luce della bidirezionalità dell’interazione Cuore-Rene, la mortalità è aumentata nei pazienti con scompenso cardiaco che presentano velocità di filtrazione glomerulare ridotta.
In questa ottica, il Minimaster “Cuore e rene” rappresenta un’imperdibile occasione per fermarsi a riflettere sull’innegabile impatto che la malattia renale esercita sulla patologia cardiovascolare e viceversa, nella pratica clinica di tutti i giorni, soprattutto nella difficile scelta tra il variegato armamentario terapeutico, farmacologico e non.
La prima sessione offrirà una panoramica generale dell’insufficienza cardiaca e dell’insufficienza renale, definite a buon diritto pandemie del terzo millennio, soffermandosi in prima battuta sul profilo fisiopatologico, complesso e articolato e sulla corretta interpretazione dei nuovi biomarcatori, che integrano la valutazione laboratoristica classica, esulando da meri fini speculativi: dalle proteine urinarie a basso peso molecolare, al NGAL, passando attraverso il KIM 1, IL 18.
Doveroso, dunque, riflettere sulla necessità di una saggia applicazione di misure preventive nel paziente nefropatico, come la terapia con statine, il controllo dell’ipertensione, la cessazione del fumo, il controllo glicemico nel diabete, e l’uso di aspirina. Il paziente con insufficienza renale cronica, soprattutto se end-stage e in terapia dialitica, pone una sfida scientifica e intellettuale di non poco conto: pensiamo solo al maggior rischio di effetti avversi correlati ai farmaci e alla conseguente necessità di aggiustamenti dei dosaggi farmacologici. In questo contesto la collaborazione tra cardiologo e nefrologo diventa probabilmente fondamentale.
A seguire, la seconda sessione sarà rivolta all’analisi delle strategie gestionali del paziente nefropatico, con cardiopatia ischemica, sia acuta che cronica. Molteplici studi hanno riportato che i pazienti con insufficienza renale cronica hanno prognosi peggiore in caso di cardiopatia ischemica e anche dopo rivascolarizzazione coronarica. Numerosi sono i fattori concomitanti: dal maggior rischio emorragico/trombotico al più cauto utilizzo di farmaci antitrombotici, fino ad approdare alla nefropatia da mezzo di contrasto. Dunque, cosa ci sfugge ancora di questi pazienti?
Le relazioni conclusive del Minimaster verteranno su scompenso cardiaco e insufficienza renale: in particolare, la conoscenza della Sindrome Cardiorenale, formalizzata dalla ormai nota classificazione di Ronco, pone le basi per un più appropriato utilizzo delle opzioni terapeutiche non solo farmacologiche: l’applicazione, infatti, di metodiche di terapia sostitutiva renale, non più solo appannaggio dei nefrologi, è legittimamente entrata nel nostro armamentario e insieme alla crescente disponibilità di dati scientifici e di risorse terapeutiche fornisce ai cardiologi una irrinunciabile bussola per orientarsi nella intricata relazione “pericolosa” tra Cuore e Rene.


 

 

SCOMPENSO CARDIACO CON FRAZIONE DI EIEZIONE CONSERVATA: PRESENTE E FUTURO?

di Emilia Biscottini

 

La diagnosi di scompenso cardiaco a frazione di eiezione conservata è spesso difficile e si basa su un’attenta valutazione clinica, eco-cardiografia e se necessario,  emodinamica invasiva. Pochi e con risultati dubbi sono gli studi condotti in questo tipo di pazienti e non esistono al momento vere e proprie linee guida terapeutiche.

La metà dei pazienti con scompenso cardiaco ha una frazione di eiezione ventricolare sinistra conservata, ma presenta valori di morbilità e mortalità simili a quelli osservati nei pazienti con insufficienza cardiaca e ridotta FE; si tratta per lo più di donne, anziane ed ipertese che possono andare incontro a decesso nel 65% dei casi entro 5 anni.
La dimensione del problema quindi, non è affatto trascurabile!
Nessun trattamento efficace tuttavia è stato ancora identificato. Un esempio è lo studio I-Preserve che ha mostrato come irbesartan non sia in grado di determinare alcun miglioramento dell’outcome dei pazienti con scompenso cardiaco a frazione di eiezione conservata; simili i risultati per candesartan (studio CHARM-Preserved) o perindopril (studio PEP-CHF) che hanno solo lievemente ridotto il numero di ospedalizzazioni.
Mentre la ricerca si è finora basata sull’importanza della disfunzione diastolica nella fisiopatologia della malattia, è forse allora necessario porre la nostra attenzione sulle numerose alterazioni non-diastoliche che possono coesistere in questo complesso quadro patologico. Forse è impossibile separare la disfunzione diastolica da altre modificazioni della funzione sistolica che prescindono dal valore di FE ma che includono ad esempio la geometria del ventricolo sinistro o le condizioni emodinamiche; inoltre, come possiamo accomunare sotto la stessa definizione pazienti con importante ipertrofia e marcata fibrosi, quelli in cui prevale la rigidità arteriosa o ancora quelli con concomitante disfunzione renale?
Dal punto di vista fisiopatologico molti sono tuttora i dubbi e studi ulteriori sono  necessari per comprendere i meccanismi e attuare scelte sul miglior trattamento.
La necessaria precocità dell’intervento rimane però una stabile certezza: nel paziente iperteso si può prevenire la disfunzione diastolica prima che questa si instauri e diventi irreversibile ed in questo caso i farmaci ACE-inibitori e gli antagonisti dei recettori dell’angiotensina ricoprono un ruolo importante in una fase precoce. I diuretici restano utili per contrastare la ritenzione idro-salina e migliorare i sintomi, così come i beta-bloccanti permettono un controllo della frequenza cardiaca soprattutto in pazienti con fibrillazione atriale. Ma esistono ulteriori prospettive future…?

 


 

 

SCOMPENSO CARDIACO ACUTO: COSA FARE IN ATTESA DELLE NUOVE LINEE GUIDA

di Emilia Biscottini

 

L’estrema eterogeneità clinica dello scompenso cardiaco acuto ha da sempre reso difficile la stesura di linee guida ed obiettivi terapeutici chiari e comuni. Ancora molto c’è da fare per migliorare l’outcome di paziente le cui cure influiscono in maniera pesante sulla spesa del SSN soprattutto per le frequenti riospedalizzazioni.

Siamo costretti ancora una volta a chiederci: cosa possiamo fare in attesa di nuove linee guida? E questa volta per poter gestire pazienti estremamente eterogenei tra loro, tutti  accomunati dalla diagnosi di “scompenso cardiaco acuto”. Se dietro questa definizione può presentarsi un paziente in shock, uno scompenso cronico riacutizzato o chi in realtà ha un infarto miocardico acuto, niente appare più complesso del trovare certezze per stratificare il rischio e scegliere la miglior cura. Il tutto aggravato dal fatto che la situazione può precipitare in pochi minuti e che spesso diagnosi e inizio delle terapie vanno condotti contemporaneamente. Non ci resta che basarci su poche ma ragionevoli certezze: ossigeno terapia o ventilazione meccanica non invasiva associati alla terapia diuretica migliorano i sintomi e l’ossigenazione, mentre ricercare i segni di bassa portata cardiaca associati alla congestione può guidarci nella scelta tra farmaci inotropi e/o vasodilatatori. La coesistenza di un deterioramento della funzione renale sappiamo innescare strette interazioni cuore-rene destinate a creare un temibile circolo vizioso, così come un associato incremento della troponina delineerà pazienti con profilo di rischio più elevato e destinati a tempi di degenza più lunghi, nonché al rischio di nuove ospedalizzazioni. Come districarci tra quadri clinici così eterogenei?
I numerosi studi clinici condotti negli ultimi anni sullo scompenso cardiaco acuto, come di recente lo studio ROSE (dopamina vs nesiritide a bassa dose associati a diuretico e.v. in pazienti con disfunzione renale) non hanno prodotto i risultati sperati, lasciando pressoché invariati gli outcome clinici e la sopravvivenza. Gli inotropi cosiddetti “tradizionali”, amine simpaticomimetiche e inibitori delle fosfodiesterasi, hanno dimostrato di aumentare la mortalità, soprattutto se associati tra loro, in quanto provocano aumentato consumo di ossigeno e possono favorire l’insorgere di aritmie. Abbiamo altre armi a disposizione? Levosimendan, un calcio-sensibilizzante che aumenta la contrattilità miocardica oltre che un vasodilatatore venoso periferico e coronarico, sembra avere un profilo favorevole per le nostre necessità, essendo efficace anche in pazienti beta-bloccati. In casi estremi, infine, di fronte al marcato deterioramento emodinamico con interessamento multiorgano, un supporto meccanico del circolo (contropulsatore aortico o device di assistenza ventricolare) può servire come “bridge to decision”:  ricordiamoci della loro esistenza prima di gettare le armi!