Sindromi coronariche acute NSTE: come implementare in Italia le linee guida ESC?

di Martina Milani

Alla Main Session sulle sindromi coronariche acute senza sopraslivellamento del tratto ST, i relatori Leonardo De Luca, Fortunato Scotto di Uccio, Gian Piero Perna, Giuseppe di Pasquale, Adriano Murrone e Carmine Riccio si sono occupati di delineare quali siano le possibilità di implementare le Linee Guida in Italia.

Dopo una sintesi delle principali novità emerse nel 2020, sono state analizzate alcune delle criticità che emergono nel mettere in pratica le raccomandazioni ESC. Innanzitutto, gli score di rischio ischemico ed emorragico, che sono inseriti tra i “gap in evidence” dagli stessi autori delle Linee Guida. Infatti, per i punteggi di rischio ischemico (come GRACE e TIMI risk score for secondary prevention), alcuni studi hanno suggerito che in realtà non aggiungano nessun vantaggio rispetto a quanto si possa ottenere da una valutazione clinica approfondita e attenta.

Per quanto riguarda il rischio emorragico, c’è una contraddizione nelle Linee Guida: esse esordiscono dicendo che il sanguinamento maggiore influenza la prognosi nella stessa misura di un evento ischemico, ma poi propongono punteggi che hanno basso livello di evidenza (CRUSADE, ARC-HBR) e non stratificano il rischio con precisione.

I limiti degli score sono ancora maggiori considerando i pazienti con SCA e fibrillazione atriale. Infatti, il paziente in terapia anticoagulante ha già un ARC-HBR compatibile con l’alto rischio, senza possibilità di miglior dettaglio; anche l’HASBLED aiuta poco, in quanto contiene in sé molti fattori che sono anche di rischio ischemico.

In merito al timing di esecuzione della coronarografia, le Linee Guida stratificano i pazienti in “rischio molto alto”, da studiare entro 2 ore, “rischio basso” a cui riservare una strategia selettiva (24-72 ore) e “rischio alto” (GRACE score > 140) da portare in sala di emodinamica entro 24 ore. Nella realtà italiana questo schema è applicabile?

In Italia, a fronte di un elevatissimo numero di ricoveri per SCA-NSTE, si registra una bassa percentuale di infarti trattati con angioplastica entro 2 giorni dalla presentazione. Infatti, una quota rilevante di reparti cardiologici (il 60% secondo un censimento ANCMO-SIC del 2015) non ha a disposizione la sala di emodinamica e deve trasferire i pazienti presso il centro Hub.

Se per i pazienti ad altissimo rischio non c’è dubbio che vada implementata una strategia di gestione sostanzialmente analoga a quella dello STEMI, il vero problema si pone per i pazienti ad alto rischio, che sono i più numerosi.

Una soluzione potrebbe essere la strategia “service”, come quella applicata in Emilia-Romagna. Essa prevede l’invio del paziente in un centro Hub, che esegue la rivascolarizzazione, e il successivo rientro nella struttura Spoke per la degenza. Condizione necessaria per la sua implementazione è una buona comunicazione tra i professionisti, tale da creare una rete cardiologica provinciale consolidata, con protocolli organizzativi ben definiti. Tuttavia, l’idea di centralizzare le procedure è difficile da realizzare in modo estensivo, per le numerose ripercussioni logistiche (ad esempio, il centro Hub potrebbe non riuscire a gestire le procedure elettive interne se deve dare precedenza a tutte urgenze degli Spoke in tempi rapidi).

Il recentissimo Position Paper ANMCO, sul timing dell’esecuzione della coronarografia nei pazienti con SCA-NSTE, ha dunque cercato di trovare un ragionevole compromesso per la tempistica delle procedure nei pazienti a rischio alto, ponendo un limite di 72 ore.

Infine, il trattamento riabilitativo dopo sindrome coronarica acuta. Esso si trova in classe di evidenza IA, ma, in modo paradossale, la sua effettiva prescrizione in Italia è minimale. In termini di beneficio per il paziente, la scelta di non attivare un ciclo riabilitativo è equivalente a non somministrare la duplice terapia antiaggregante (il livello di raccomandazione nelle Linee Guida è lo stesso!). Sembra però che ancora non si riesca a percepire l’importanza di questo trattamento; o, forse, non si propone tale terapia perché le strutture riabilitative non sarebbero sufficienti per supportare una domanda estesa. Nell’attesa e nella speranza che l’offerta possa essere implementata, ci si dovrebbe almeno impegnare a ricordare al paziente il beneficio dell’attività fisica, ad esempio non tralasciandolo mai tra i consigli nella lettera di dimissione.

Martina Milani