Using digital technologies to understand atrial fibrillation

di Martina Milani
Come le nuove tecnologie possono contribuire a migliorare la gestione del paziente con fibrillazione atriale

In primo piano, nella giornata conclusiva del Congresso ANMCO 2021, si colloca la Lettura Magistrale della dottoressa Barbara Casadei, Professor of Cardiovascular Medicine all’Università di Oxford, introdotta dal dottor Domenico Gabrielli. Il tema è stato l’applicazione delle tecnologie digitali alla fibrillazione atriale, dalla diagnosi alla migliore interpretazione dei suoi meccanismi fisiopatologici.

Come sottolineato dalle Linee Guida ESC del 2020, c’è un’indicazione di classe IB ad eseguire lo screening dell’FA, attraverso la valutazione del polso e del tracciato ECG, nei soggetti con più di 65 anni. Accanto a questo, il digitale ha prodotto le più disparate soluzioni per il monitoraggio del ritmo cardiaco. Esse coadiuvano il ruolo del medico nell’individuare le alterazioni del ritmo.

Sappiamo dunque che cosa fare, ma molte sono ancora le cose che non conosciamo in tema di fibrillazione atriale. Tra le questioni che restano aperte, è stata citata la difficoltà di indagare la prevalenza dell’FA, che è estremamente variabile, a seconda della tecnica e della frequenza con cui si attua lo screening, e in base alla presenza di fattori di rischio nel campione in analisi (età, apnee ostruttive, BMI, ingrandimento atriale sinistro, livelli di NTproBNP). Appare chiaro come la disponibilità di app e dispositivi, che rilevano il ritmo cardiaco in modo continuo e su una quota sempre più ampia di popolazione, consenta di essere più capillari nel valutare la prevalenza della fibrillazione atriale.

Anche l’intelligenza artificiale, che può integrare una grande quantità di informazioni derivate da campione molto vasto, potrebbe essere di grande aiuto nel rispondere alle nostre domande. Ad esempio, nel Regno Unito il registro Biobank ha reclutato, tra il 2006 e il 2010, 500mila soggetti, raccogliendone numerosi dati anamnestici, clinici, biochimici, genetici (whole exome sequencing), imaging (risonanza magnetica di cuore e cervello, ecografia carotidea e densitometria ossea) e valutazioni dello stato cognitivo. A questi sono stati aggiunti dati di monitoraggio ECG in oltre 10.000 pazienti di età superiore ai 60 anni e trasmessi da un patch indossato per una mediana di 12,6 giorni. L’integrazione di tutti questi elementi da parte di un algoritmo consentirà non solo di valutare la prevalenza di aritmie silenti e di individuare i loro fattori di rischio, ma soprattutto permetterà di comprendere l’impatto della fibrillazione atriale silente sul rischio di stroke, infarto miocardico e demenza.

Infine, un problema importante è l’opportunità di avviare la terapia anticoagulante nei pazienti con AHRE (eventi atriali ad elevata frequenza, verosimilmente lembi di FA), dal momento che è noto che in questo sottogruppo la probabilità di stroke è inferiore rispetto a quello con diagnosi clinica di fibrillazione atriale.

Per dirimere la questione è necessario definire quale sia il vero il target della terapia anticoagulante, al di là delle indicazioni che ora ci vengono fornite da score come il CHA2DS2VASc. A tal proposito potrebbero rivelarsi utili la radiotrascrittomica (che, associando caratteristiche istologiche e di proteomica a dati imaging, può identificare il danno endoteliale e uno stato di ipercoagulabilità che portano a trombosi) e la 4D flow RMN (una metodica che descrive il flusso atriale e che ha mostrato come esso sia simile in pazienti con fibrillazione atriale cardiovertita e pazienti con ritmo sinusale ma numerosi fattori di rischio, a dimostrazione del fatto che forse non è solo l’aritmia in sé a determinare la stasi ematica predisponente al tromboembolismo).

Martina Milani